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Una mia amica psicologa una volta mi ha detto che una delle definizioni di psicosi è quella di credere fermamente per mesi o anni in un mondo immaginario, che nessuno tranne il paziente è capace di percepire.
Chissà se qualcuno ha mai notato quanto questa definizione caschi a pennello anche per quella di uno scrittore.
Ad ogni modo, tutto questo, insieme al periodo di solitudine forzata che stiamo vivendo a causa di questo maledetto coronavirus, mi ha fatto pensare agli scrittori e alla relazione tra la loro vita e quella immaginaria.
E il fatto è che scriviamo perché abbiamo l’urgenza di comunicare: spesso ci diciamo che lo facciamo per parlare agli altri, ai nostri lettori, quando invece in realtà siamo noi stessi il destinatario dei nostri scritti.
Sentiamo questa necessità di metterci in relazione con qualcuno, chiunque esso sia, e per farlo spendiamo un sacco di tempo da soli, anche se in compagnia dei personaggi che sono dentro la nostra testa.
Questa urgenza di scrivere a volte comincia dall’esperienza della solitudine e il paradosso è che, anche se la scrittura è quella pratica che ci permette di rimanere in contatto con gli altri, in realtà per esercitarla siamo costretti a isolarci.
A volte questa solitudine ci è stata imposta da piccoli e magari da adulti è diventata una scelta. Questa almeno è la mia esperienza. E se per tanti anni me ne sono stato lì, da solo di fronte a una macchina da scrivere prima, la macchina da scrivere di mia nonna, e successivamente a un computer, ho bene in mente anche come si sono sentito quando per la prima volta ho letto a un pubblico sconosciuto ciò che avevo scritto: mi trovavo a Roma, avevo ventitré anni e avevo partecipato a un concorso letterario, si chiama MArtelive e sì, esiste ancora.
Ci sono quindi questi due momenti distinti: quello di solitudine, che può durare mesi o anni, e quello in cui lasciamo che altre persone conoscano il mondo che abbiamo immaginato, che viviamo sempre troppo poco. Non capita spesso di essere nelle condizioni di sperimentare entrambe le cose, ma ti auguro di farlo, perché solo vivendole entrambe potrai godere appieno della tua condizione da scrittore.
E in questo periodo, questo periodo strano, di cambiamento, in cui ci troviamo costretti a rimanere in casa, sento persone che si lamentano, che non sanno cosa fare, che si annoiano. E questo dovrebbe farci riflettere quanto il nostro lavoro, quello per il quale ci alziamo la mattina presto e torniamo la sera tardi, sia diventato il solo protagonista delle nostre giornate, al punto da farci dimenticare quello che siamo in grado di fare quando siamo da soli, o ciò che eravamo quando restavamo da soli in cameretta.
La fortuna di chi sa scrivere o di chi semplicemente vuole scrivere in questo periodo è che tipi come noi nella solitudine ci sguazzano, e la solitudine ci riporta ai tempi in cui avevamo tempo, quando la nostra immaginazione non era ancora ingabbiata dagli orari assurdi che il lavoro ci impone, ci fa riprendere spazio, ci fa respirare di nuovo, come quando avevamo 14 anni, fuori il mondo era in bianco e nero, ma dentro il nostro era pieno di colori.
Verissimo ciò che hanno scritto le persone prima di me, lo scrittore è un modo di vivere circondato da pensieri, immaginazione, creatività, è quello che quando sta fra gli altri può far tesoro di qualche cosa che osserva e vorrà stendere in scrittura. E’ sempre alla ricerca fame d’informazione nel creare e meravigliarsi. Per lui scrivere è scrivere musica e osserva le note che sul pentagramma appaiono, scompaiono, cambiano, si modificano con gli arrangiamenti che porta la semplice melodia a diventare tutt’altra cosa.