La lettura non permette di camminare, ma permette di respirare

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Vincitori concorso dei mini racconti 2020

Vincono il pacchetto base del Master Online di Scrittura creativa:

— Manuela Minelli con Gala
— Elena Musso con Uomo pesce

 

Vince il primo premio del concorso dei mini racconti 2020, ottenendo così il pacchetto intermedio del Master Online di Scrittura creativa:

— Laura Monteleone con Azzurro Madre 

I racconti:

 

GALA (di Manuela Minelli)
Gala ha capelli di fieno, labbra di zucchero rosa, pelle d’ambra e nocciole nello sguardo.

E ha un unico, preciso obiettivo. Quaranta.

All’inizio va per gradi, cinquantacinque, cinquantadue, cinquanta, quarantotto, quarantacinque, via via fino alla meta.

Si sente forte Gala, fortissima. Ha il potere della sua fragilità, tiene a digiuno la vita a causa di colpe non sue.

Si è imposta delle regole: mai ingerire qualcosa dopo le sette di sera, mai mangiare qualcosa più grande del palmo della sua mano e sempre in piatti piccoli per far sembrare le porzioni più grandi, mangiare con la destra per rendere più faticoso, essendo mancina, il percorso del cibo dal piatto alla sua bocca, bere tre litri di acqua al giorno, fare estenuanti esercizi in palestra.

E se mangia più di quanto si è imposta corre immediatamente in bagno a vomitare. Si ficca due dita in gola fino a che tutto ciò che contiene il suo stomaco finisce nel water. Spesso da quella sua bocca di zucchero rosa esce anche sangue. Ma questo non la spaventa, anzi. Gala sa che non c’è vittoria senza sofferenza, e quelle strisce di rosso che scivolano lente verso il fondo bianco del gabinetto sono la conferma che sta lavorando sodo e bene. Vomiterebbe anche le ovaie se potesse, pur di sentirsi più leggera.

Quarantatré. Oggi c’è il sole e Gala ha dolori allo stomaco. Allora apre il frigorifero, prende un pomodoro, lo taglia in pezzi piccoli, aggiunge due foglie di lattuga e tre rondelle di cetriolo. Si siede a tavola, sola, sua madre è al lavoro, le ha appena telefonato per sapere se aveva mangiato le cotolette che aveva preparato per lei. Gala mente, dice: «Sì, mamma, certo, erano buonissime». La madre tira un sospiro di sollievo, pensa che gliele preparerà di nuovo dopodomani, magari con un contorno di patate. Quella sua bambina così magra e così brava a scuola è il suo orgoglio, la sua unica soddisfazione, è davvero una figlia perfetta.

Gala prende le cotolette con due dita, apre la finestra del balcone e le passa oltre il muretto divisorio al cane del vicino che, scodinzolando, le inghiotte in un boccone.

Quarantadue. Gala odia sbagliare. Quando la prof. di greco le riporta la versione con due errori segnati in rosso che le fanno scendere il voto a sei e mezzo, Gala si chiude in bagno e piange. Non era quello il voto che era abituata a ricevere, “Mai sotto l’otto, questo il mio motto”. E gliel’avrebbe dimostrato a lei e anche a sé stessa.

Quarantuno. Gala ha deciso. Oggi andrà a farsi il piercing. Come quello della sua amica Violetta, ma più bello. Una piccola tartaruga d’acciaio a cavallo del suo ombelico, una tartaruga che, come lei, si nutre di cibo verde, che come lei viaggia lentamente, meticolosamente, verso l’obiettivo.

Quando il ragazzo che deve forarle la pelle vede quell’addome così incavato dice che non può farglielo il piercing. Gala protesta, insiste, dice che pagherà di più. Il ragazzo alla fine cede, è difficile prendere i lembi di quell’ombelico, ma alla fine la piccola tartaruga d’acciaio è al suo posto, lucida e simbolica. Gala è felice, non ha sentito dolore, solo una piccola fitta, ma è passata subito. È molto orgogliosa di quella sua tartarughina, ma non dice niente a sua madre. La sera, prima di andare a letto, si guarda nello specchio e la tartaruga le sorride dall’ombelico: “Brava, Gala, solo foglie di lattuga, mastica lentamente e a lungo”.

Gala va a dormire leggera e soddisfatta.

Quaranta. L’obiettivo è stato raggiunto. Ma visto che non è stato poi così difficile, perché non proseguire? Gala si guarda allo specchio, nuda. “Ho le cosce troppo grosse” pensa. “E questi fianchi… enormi! E il sederone… mio dio … Sono grassa, devo continuare, non posso arrendermi.”

Gala prende un paio di jeans dall’armadio, sembrano quelli di un bambino, le gambe sottili come braccia, un piccolo polipo con quattro tentacoli sottili. Mette su una maglietta rosa che le lascia scoperto l’ombelico con la tartaruga.

Ancora quaranta. Oggi è domenica, Gala e sua mamma sono invitate a casa della nonna. C’è la pasta al forno, si sente l’aroma già nell’ingresso, la casa ne è impregnata. Gala si sfila il giubbino e annuncia che ha mal di stomaco e la nausea. La nonna non vuole sentire ragioni. «Mangia, Gala, sei così magra, assaggiane solo un poco.» «Non ce la faccio nonna, davvero, non posso.» La nonna, solerte, le prepara del riso in bianco, con poco olio e parmigiano. Gala non lo finisce tutto e, discretamente, va in bagno. Si inginocchia davanti al water, mette due dita in gola e si pulisce. Il sapore del parmigiano le dà la nausea, quella vera.

Trentanove. Bisogna festeggiare. Mangia un piccolo panino tonno e pomodoro al compleanno di un’amica, beve due bicchieri di Coca Cola. Light. E balla fino a sfinirsi, balla con la tartaruga in bella mostra, con quel pancino introverso e retroverso, con quelle gambette magre e quel piccolo sedere tondo e aggraziato, balla con i capelli che fluttuano a destra e a sinistra, una ciocca color fieno le si appoggia su una guancia umida. Guarda un ragazzo dagli occhi blu e lui ricambia il suo sguardo e le sorride. Gala è felice.

Trentotto. Piove e Gala sente freddo nonostante abbia addosso tre maglioni e i riscaldamenti siano al massimo. Sono tre mesi che non le arrivano le sue cose, meglio così, un fastidio in meno. Gala va in cucina e si fa un thè leggero con foglie di menta e un cucchiaino di zucchero scuro. Lo beve bollente, ma neanche così si riscalda. Platone la aspetta di là e pure dodici pagine di storia e gli esercizi di inglese. Gala passa davanti allo specchio del salotto, ma non nota le occhiaie profonde, i capelli opachi, il naso prominente, senza più guance attorno. Non ha voglia di studiare, non ha voglia di chiamare Violetta, forse non ha più voglia di vita.

Trentasette. E poi trentasei e trentacinque. Gala non va a scuola, non ce la fa. La tartaruga appesa al suo ombelico sembra voler venire giù. La mamma ha deciso di portare sua figlia da un medico. Lo studio del dottore ha le pareti verdine e riproduzioni di Klimt e Miró alle pareti. Lui ha l’aria severa, dice «Doveva portarmela prima, signora, ora la situazione è disperata». Dice «disperata» sibilando la esse e alla mamma di Gala questa parola esplode nella testa come un tuono. Dice che Gala deve essere ricoverata, assistita, riportata a condizioni normali. E che ci vorrà del tempo. Gala ascolta in silenzio.

 

I colori delle riproduzioni di Mirò ora sembrano troppo accesi, troppo vitali, mentre Gala è in una situazione “disperata”.

Trentacinque. Gala aveva capelli di fieno, labbra di zucchero rosa, pelle d’ambra e nocciole nello sguardo. Gala odiava sbagliare, era una perfezionista. Ma poi ce l’ha fatta, è arrivata alla meta, anzi è andata oltre, ha superato sé stessa e ora, per premio, vola in alto leggera, mentre tutto si fa più piccolo e sfocato, la mamma, la prof, la scuola, il dottore, Violetta, il ragazzo dagli occhi blu che le sorride.

La tartaruga appesa all’ombelico non ce la fa a riportarla a terra.

 

 

Uomo pesce (di Elena Musso)

Me le cerco addosso, con la mano intorpidita dal freddo e dalla scomoda posizione che ho assunto da qualche giorno. Il dondolío incessante mi ipnotizza. Non riesco a far nulla. Ogni tanto, qualcuno passa e mi porge dell’acqua e del cibo. Il mio corpo reclama ancora ma la mente si è fermata. Non penso che ad una sola cosa: dove ho le mie branchie? Se sono qui in mezzo al mare da tutto questo tempo, se non vi è una riva ad accogliermi, devo essere un pesce. Sì, io sono un pesce. Resto immobile, forse così le gambe si trasformeranno in una coda che potrò agitare nelle acque scure di questo mare senza fine per spingermi lontano da questa nave fantasma, da questa nave che nessuno vede. Che nessuno vuole.

Un po’ più in là c’è una donna con un bambino in braccio. Piangono.
Ma io non piango. Io sto diventando un pesce e i pesci non piangono. E non parlano, sono muti. Io sono muto.
Appena sarò pronto, salterò giù dal parapetto e l’acqua sulle squame lucide non sarà troppo fredda. Un colpo di coda e via, dentro il ventre liquido di questo mare scuro come la mia pelle di prima. Veloce, fenderò le onde schiumose come la bava di un enorme mostro.
Dove andrò? Non a riva, non ho più le gambe. Resterò in acqua fino all’estate. Il sole mi scalderà attraverso la superficie liscia dell’acqua, finalmente calma. Ecco, ora lo so, sono scappato dalla mia terra, perdendola per sempre e nessun’altra terra può esserci per me. Solo acqua e sale che brucia le ferite. Per sempre. Nuoto disperatamente nel cerchio scuro dei miei pensieri di uomo-pesce. Un’ombra mi sovrasta all’improvviso. Le fauci enormi di uno squalo si aprono su me. Chiudo gli occhi. Dormo.
Gli uomini dell’equipaggio cantano. Lo chiamano Natale, ricordano la nascita del loro Dio. Io pregavo, prima. Pregavo Dio, poi pregavo quegli uomini che mi torturavano, li pregavo perché la finissero. Pregavo su quel guscio di legno sballottato dalle onde e ho pregato gli uomini scesi da questa nave per soccorrerci, perché mi aiutassero. No, adesso non prego più. Tanto non sente nessuno. E poi, io sono un pesce e i pesci non pregano. Sono muti. Io sono muto.
Riapro gli occhi per un momento. Le onde sempre più alte si infrangono contro gli oblò. Il dondolío è diventato tempesta. La nave si alza e si abbassa, si piega su un lato. Vedo alcuni dei miei compagni aggrapparsi al passamano che corre lungo le paratíe. Qualcuno vomita. Io irrigidisco i muscoli e steso sul pavimento aspetto che si completi la mia metamorfosi. Qualcuno urla. Io sono un pesce. Io sono muto.

Attraversiamo mare e giorni. Di noi, fra qualche tempo non resterà memoria. Qualcuno, forse, un giorno troverà una riva e racconterà la nostra storia. Io no, non racconterò nulla. Io sarò un pesce. Io sarò muto. Per sempre.

 

Azzurro madre (di Laura Monteleone)
Porto il nome della donna che mi ha portato al mondo. Mia madre, distratta, non se l’era preparato, così dovette acchiappare al volo il primo che le venne incontro appena nacqui. Aveva un bel nome la mia levatrice, per fortuna.

Mia madre era così distratta che si perdeva tutto, e un giorno non trovò più nemmeno la strada di casa.

«Siamo troppo a nord, perché abbia voglia di tornare a cercarla». Con queste poche parole e con una bella scorta di pazienza si rassegnò il mio papà sgangherato, e si prese il compito di allevarmi da solo. Tranne d’estate, quando mi affidava a una zia molto a sud, per farmi crescere di sole e di magia.

«Vai nella terra delle streghe e dei briganti» ammiccava misterioso prima di salutarmi.

La zia Pinella, una giovane donna che aveva rubato le sembianze a una vecchia, si barcamenava tra una moltitudine di creature e di faccende, sudando di nascosto dentro vestiti color della pece. Simili a quelli delle altre donne che popolavano come ombre inquiete le viuzze intorno, abbacinate di sole e di calce.

Delina invece, scolpite le sue natiche secche sulla paglia intrecciata, stava di guardia accanto a un uscio scuro, coperta dai colori più vivi e dai contrasti più azzardati.

Fu lei a regalarmi l’aggettivo sgargiante, un dono meraviglioso per la mia collezione di parole speciali. Le mie compagne segrete, che custodivo con amore in quel vuoto vicino allo stomaco che non è fame.

Mi piaceva tanto Delina, che aveva perso la A tra i denti delle vicine e le iridi sotto due gocce di calce. Mi piacevano i suoi occhi di panna che sapevano guardare anche senza vedere. E mi piacevano le sue risposte, che sapevano dire la verità senza raccontarla, come per il marito di zia Pinella.

Lo zio era un’assenza. Ma molto ingombrante, come un mobile fuori posto. Accendeva la mia curiosità che nessuno osava spegnere. Solo Delina aveva acconsentito:

«Tuo zio è un insetto notturno, un ragno equilibrista che si muove su reti invisibili», poi le sue labbra si erano richiuse così strettamente che mi ero aspettata di udire uno scatto metallico. Ero rimasta attonita, come i gusci di case che circondavano la sua seggiolina di stoppie.

Ci avevo riprovato con zia Pinella a soddisfare la mia curiosità, ma lei aveva sorriso massaggiandomi tra i capelli con le sue dita incantate, che impastavano il pane e tagliavano i cordoni ombelicali. I miei pensieri si erano fatti d’argilla fresca e avevano perso la forma e la domanda.

Solo di notte me ne ricordavo,  quando lo spazio misterioso costruito sopra le camere da letto si animava di rumori sconosciuti. La zia lo chiamava magazzino. Vi si accedeva da una scala esterna, vietatissima a noi bambini.

Mi svegliava l’odore di urina notturna, che i più piccoli non sapevano ancora governare, e nel buio compatto mi mettevo in ascolto di quei suoni stranieri, le mie orecchie così tese che avevo paura di trovarle cresciute la mattina successiva.

«C’è qualcuno di sopra» avevo azzardato a bisbigliare una notte.

«Nessuno» aveva grugnito un cugino grandicello «sono i gatti che cacciano i topi».

Ma non era vero. I gatti stavano sotto il mio letto perché dormivo con le braccia penzoloni e loro si divertivano a giocare con le mie dita, piccoli pugili che allenavano le zampette soffici sui miei polpastrelli.

Finalmente il cielo partorì una notte di luna. La stanza si accese di riflessi d’albume. Un rumore più forte del solito mi fece sobbalzare e fece scattare le unghie dei gatti contro le mie dita come coltellini a serramanico. Soffocavo tra i denti i singhiozzi di sangue dei polpastrelli, mentre la lingua si impregnava di saliva ferrosa, quando zia Pinella si materializzò senza suono accanto al mio letto sollevandomi con cautela fra le sue braccia. Mi portò fuori e con un’agitazione che non le conoscevo mi esortò a salire nel magazzino:

«Vai, presto, lo zio ha portato una sorpresa per te…» ansimava nel bisbiglio e sembrava tremare in tutta la sua persona, ma forse era solo il riflesso delle piante scure che si muovevano nella luce lunare e nella brezza fresca. Esitai, mentre una specie di timore mi pungeva tra le spalle. La zia mi sospinse leggermente verso le scale proibite. Il carrubo proiettava strani disegni sui gradini grezzi di cemento e i miei piedi nudi sembravano calpestare briciole di vetro.

Avevo ancora le dita in bocca, tra le mascelle serrate. Le liberai e strinsi una mano contro l’altra mentre entravo nello stanzone sconosciuto. Pile di vecchie cose ingombravano la vista, sagome di sacchi e qualche mobile inutile facevano da riparo a una nicchia sul fondo, illuminata da un abat-jour appoggiato su un tavolino scuro vestito di marmo. C’era un letto di fortuna, occupato dalla creatura più meravigliosa che avessi mai visto. Stava seduta in attesa, piedi a penzoloni, insaccata in una camicia da notte azzurra come i suoi occhi. Era davvero lei? Gli occhi indecisi se ridere o turbarsi. Quegli occhi che il cielo le aveva riempito svuotando una brocca del suo colore più intenso.

«Mamma…» era una domanda che temeva una smentita, era un’affermazione che temeva lo scherzo amaro di un miraggio. Ma lei annuiva, sempre più convinta, e allargava le braccia. Mi lasciai stringere. Poi mi allontanai un poco per cercare ancora i suoi occhi.

Tremavamo come la zia Pinella, forse per colpa della lampada sul tavolino. La mia madre distratta era impacciata e confusa. Schiudeva le labbra per pronunciare le parole segrete e speciali che aveva conservato per me, ma le perdeva prima che arrivassero a destinazione. Deglutì più volte con un verso assurdo che ci fece ridere e che allontanò un poco l’impaccio.

«Lo sai che ci sei nata, qua dentro?» mi fece d’un tratto, sollevando la camicia da notte sulla pancia. Sorrise con gli occhi e mi strinse di nuovo a sé. Non risposi. Il mio cuore era sgargiante.