La lettura non permette di camminare, ma permette di respirare

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Vincitori concorso dei mini racconti 2022

Dal 10° al 7° posto in ordine alfabetico:
— Valentina D’errico con Lui, mio padre
— Marzia Fanecco con L’amante
Nicole Picciau con Una questione di percentuali
— Corrado Tringali con Appuntamento con il vulcano 

Dal 6° al 4° posto in ordine alfabetico:
—  Daniele Gennara con Giovane scrittore già in pensione
— 
Monica Menzogni con Lo schianto
— Damia Spada con L’immensità del cielo 

I tre racconti vincitori
3° posto: Giuseppe Pellizzeri con Il coraggio di una donna 

Questa mattina aprendo l’archivio l’ho incontrata.

Ci sono ricordi che non sedimentano mai. Storie che rimangono sospese nel sottobosco della tua mente fino a quando la pioggia di una immagine o di un nome non li riporta a galla a ricordarti che alcune persone più di altre lasciano dentro di te tracce incancellabili.

Mi ricordo di averla vista per la prima volta qualche anno fa, in sala d’aspetto. Una giovane donna, minuta.

Stava seduta un po’ in disparte, con un libro in mano, circondata da altre mani che digitavano frenetiche. Sorta di piccolo Forte Alamo di resistenza umana. Mi ha fatto subito simpatia. Ho pensato che fino a quando una mano stringerà un libro ci sarà sempre speranza in un mondo migliore.

Entrò una decina di minuti dopo.

“Buongiorno signora” dico dandole la mano.

“Buongiorno dottore” risponde lei, stringendomela con fare deciso.

E poi, di getto: “Glielo dico subito così rompiamo l’imbarazzo. Ho un tumore al seno e sto facendo la chemio”.

‘Belli diretti’ mi dico. Poi però mi rendo conto che dietro quella frase si nasconde un disagio.

E infatti subito dopo precisa: “Dottore, mi capisca. Cerco di convincere me stessa, e non è facile. Dopo la fase depressiva ora sono nella fase combattiva. Prendo di petto il problema, mi drogo di percentuali e statistiche di guarigione e vado avanti”.

“Ci manca pure che debba giustificarsi” le dico.

“Cosa legge?” le chiedo cambiando discorso, così, tanto per allentare la tensione.

E subito le si illuminano gli occhi, di quella stessa luce che hanno i bambini quando ricevono un regalo.

Mi mostra la copertina del libro e indicando l’autore dice: “Dottore glielo consiglio”.

Non so se vi sia mai capitato, ma quando si ha la fortuna (perché di fortuna si tratta) di incontrare qualcuno con cui conversare di libri, hai la sensazione che quella giornata sia stata una giornata spesa bene.

Di sicuro ho visto sciogliersi la tensione nel volto della giovane donna.

Ringrazio dicendole che lo avrei letto e ne avremmo parlato la prossima volta che tornava. (avevo già letto quel libro, ma non glielo avrei mai detto. Non volevo toglierle il piacere di potermelo consigliare).

Mi saluta e va via.

“Buongiorno signora, come si sente oggi?”

“Felice. Ho portato mio figlio in gita, glielo avevo promesso. Mi sono stancata, ma ne valeva la pena. Lo avevo un po’ trascurato ultimamente ma vederlo sorridere ha azzerato tutta la fatica”.

E poi lascia cadere una frase, quasi un sospiro: “Lui ha solo me”.

Ammetto che lo stavo solo pensando quando lei mi guarda negli occhi e fa: “Il padre, vero? Quello è scappato appena è esplosa la malattia. Dice che non se la sentiva…

Capisce dottore? Lui! Lui non se la sentiva!”.

Non ho detto nulla perché nulla c’era da dire.

Ma per un attimo, per un piccolissimo attimo, ho provato imbarazzo.

Lei se ne accorge: “No, dottore. Lasci perdere. Non ne vale la pena.” mi dice scrollando le spalle.

“Noi donne abbiamo la testa dura. Niente e nessuno può buttarci giù. Siamo come

l’Araba Fenice, rinasciamo sempre dalle nostre ceneri”.

E sorride, di quel sorriso sereno che hanno le donne quando decidono di prendere di petto la vita. E come se nulla fosse, fa:

“A proposito, viene a vedermi recitare, sabato sera?”

Eccolo, il coraggio e la forza di una donna.

E io penso a quanta vita c’è in questo essere minuto, e a quanto piccole mi appaiono adesso le mie fatiche quotidiane mentre una valanga di emozioni mi sommerge.

Avrei voluto abbracciarla. Avrei dovuto abbracciarla. Per farle sentire un po’ di solidarietà. Ma non l’ho fatto. Forse per pudore, ma non l’ho fatto.

Occhi gonfi.

‘Oggi giornata no’ penso quando la vedo entrare.

“Dottore, non ce la faccio, non ho più voglia. Ieri sono rimasta tutta la giornata a letto, non ho neanche cucinato per mio figlio. Perché è successo proprio a me?”

Sapevo che sarebbe arrivato questo momento, me lo aveva confidato con timore tempo prima. “Non sono pronta”, mi diceva. “Non sono ancora pronta.”

E chi lo è…

Nessuno dovrebbe mai essere pronto per quel tipo di viaggio.

“Dottore, la disturbo?” mi dice una mattina al telefono.

“Devo fare un ciclo di chemio nelle vacanze di Natale, so che siete in ferie ma potrebbe trovare un minuto per visitarmi?”

Aveva la voce stanca. Non era un buon segno.

“Ma certo. Mi dica lei quando le viene comodo e io troverò il tempo”.

“Grazie dottore, ci contavo. Adesso vedo di rimettermi un po’ e poi la richiamo. Ah, dottore, se ce la faccio vorrei anche andare al cinema”.

Ha tossito ed ha riattaccato.

Non ha più richiamato.

Chissà se qualcuno lassù avrà esaudito il suo ultimo desiderio.

Mentre quaggiù, in questo angolo di mondo, la vita continua tra speranze ed illusioni, seguendo una trama che noi non possiamo conoscere ma soprattutto non possiamo modificare, relegati quali siamo al ruolo di comparse occasionali in un film di seconda visione.

Lasciandoci solo l’amara consapevolezza di sapere che una parte di noi, una piccolissima parte di noi, vola via insieme alle persone con cui abbiamo condiviso un piccolo pezzo di strada.

Domani andrò in libreria. Comprerò un libro, mi siederò e penserò a questa giovane donna. Sono sicuro che da lì il mio bacio e la mia carezza le arriveranno prima.

2° posto: Celeste Napolitano con Indiani e Cowboy

Chi è di Napoli lo sa, che lavorare in zona Chiatamone garantisce sfumature di bellezza, soprattutto se
in ufficio arrivi di buon mattino e rigorosamente a piedi. Santa Lucia, il Golfo, le isole mai troppo
lontane, il mare che non bagnerà Napoli però ti allaga dentro, il respiro che si riempie di tenacia. Come
quella dei pescatori. Dei gabbiani. Dei venditori abusivi di taralli. Fino a qualche anno fa lavoravo nelle
Case Nuove, dove ad allagarsi sono le strade quando piove, e se inspiri troppo forte ti ferisce. Le Case
Nuove di nuovo non hanno niente, tranne la lezione consegnata ogni volta. Le cose belle possono pure
succedere, però quelle importanti te le devi proprio conquistare. Così santifichi il difficile, ringrazi il
complicato, benedici l’istruttivo che affatica ma eleva oltre ogni altezza fisica. Capisci chi sei, quanto
vali, a cosa puoi arrivare, quanto in basso puoi cadere e dopo quanto ti rialzi. Spazzato via il guadagno
immeritato, a restare è ciò che vai a prenderti da solo, dacché a parlare siamo bravi quasi tutti, ma poi
è sul campo che si vede chi resiste. Nelle Case Nuove le donne si sposano, fanno figli e governano vite
prima ancora che noi fanciulle borghesi arriviamo a capire quanto costi il pane. Se ci arriviamo. Sono
belle e affamate di vita. Se non ne conosci il coniuge potrebbe essere latitante, ospite dello Stato o del
camposanto. Una volta che scansavo pozzanghere e pensieri, sono inciampata in un gruppo di bambini
che si contendevano un cowboy. Giocavano con agonismo da campioni e serietà da duellanti. Alla fine
il bimbo con la cicatrice sulla fronte ha vinto e gli altri lo hanno festeggiato lungamente e senza sportività.
Gli hanno urlato «Salvatò, sì ‘o chiù fort!» accerchiandolo festanti, mentre lui esultava smisurato, che
passare da primatista a primate è un soffio sulla frangia. Lo sconfitto se ne stava solitario, in disparte,
con gli occhi colmi di lacrime e rinuncia. Poi si è alzato, ha asciugato le guance, ha attraversato la calca
con il premio stretto nella mano, si è avvicinato all’idolo e a mezza voce ha detto «Tiè Salvatò. L’hai
vinto tu. Però trattalo bene» consegnandolo con un amore senza prepotenza. Là ho capito chi fosse
veramente quello forte. Saper perdere con dignità, sentirsi interi nella sconfitta, accettare la disfatta
senza drammi, anzi col piglio resiliente, non è una cosa che riguarda tutti. Me non di sicuro. Una cosa
però mi è stata chiara: se quel che perdi lo ami, lo ami assai, lo ami per davvero, allora non t’importa il
senso di possesso, speri soltanto nel miglioramento. Ovunque, chiunque lo accompagni. Il tempo
cambia, qualcosa si disperde, non tutte le contese ci premiano l’impegno. Ma se uno è dignitoso nella
resa, già ha vinto qualche cosa della sfida. Almeno con se stesso. È l’unica soluzione per rimanere illesi
rispetto alla certezza che perdere, talvolta, è un fatto inevitabile.
Al Chiatamone a pranzo incontro spesso gente famosa. Nelle Case Nuove invece mangiavo sempre
con Carminiello, pochi chili di scugnizzo, negli occhi la fierezza di chi del difficile non tiene paura.
Aveva un cowboy, ma l’ha perso con onore. Oggi l’ho incontrato vista mare e mi ha abbracciata. Nelle
Case Nuove i bambini tengono scuorno di abbracciarti perché devono essere forti come i grandi, che
non abbracciano mai. Ma quando nessuno li vede ti stringono, sorridono e si siedono vicino a te. E tu
sei contento come quando conquisti una cosa veramente preziosa, tipo la fiducia, che non può essere
concessione immediata sennò è un ovvio pezzotto. «Carminiè, bello! Che ci fai da queste parti?»
«Aspetto ‘e cumpagn». «Mi raccomando, nun fa guaje che poi la nonna si piglia collera». La nonna di
Carminiello mi portava le polpette nel sugo. La prima volta mi disse «Ci ho messo pure le cervellatine,
so’ chiù sapurit» e conciliai nello stesso morso un conato di vomito e uno slancio di gratitudine. Un
giorno di poca fame, davanti al piatto pieno mi disse «Piccerè, si nun te fa mangià nun è pe te, nun te
vo bben». Da allora seleziono l’amore in base all’accudimento gastronomico. Come in tutte le case
delle Case Nuove, a casa di Carminiello comanda la nonna. Quando gliel’ho nominata è arrossito
colpevole, manco fossi la fidanzatina gelosa di una rivale in amore. Così ho cambiato argomento. «Jà,
dammi il quaderno, ti aiuto coi compiti. Carminiè, a parte che si dice pietra e non preta. E po’, il cuore
può mai essere una pietra? Ma comm t’a venut?» «Mammà rice semp ca ‘o core suo è ‘na preta, a
quann babbuccio nun nce sta chiù».
In uno dei posti dove lavoro io, se arrivo presto la mattina riesco a fare colazione col portiere del
palazzo. E se arrivano presto pure gli altri, lui mi racconta i loro fatti man mano che ci passano davanti.
In quel posto il caffè lo porta sempre Mimmo, ragazzone dal sorriso imbranato, dalle unghie trascurate
e dalla faccia buona. Si vede chiaro chiaro che da bambino era uno che tifava per gli indiani. Ogni volta
va di fretta e tu pensi “Marò, quanto è responsabile questo, che manco si ferma a fare due chiacchiere
con noi nullafacenti”. Mimmo nel frattempo diventa paonazzo, si pulisce le mani alla buona e dal
marsupio tira fuori un sacchetto. E lo fa con tanto di quel garbo che le unghie non si notano nemmeno.
«Patrì, il cornetto di oggi è di farina integrale e la crema di pistacchio è ‘na poesia». Patrizia è la giovane
praticante del notaio che sta qualche piano sopra a dove lavoro io, e le unghie le tiene sempre a posto.
Mimmo la tratta da sceriffo, ma io che le ho parlato qualche volta sono quasi sicura che pure lei da
bambina parteggiasse per le squaw. «Mimmo, ma chi lo manda questo cornetto ogni giorno?» «E nun
‘o sacce Patrì. Sennò te lo dicevo». Ho detto al portiere che doveva essere proprio un fatto bello avere
un corteggiatore misterioso che ogni giorno, anziché la solita rosa mezza moscia, sceglie un cornetto
diverso e tiene pure la premura di fartelo spiegare. Ma lui, anziché darmi ragione, si è messo a ridere
e mi ha risposto che d’amore non capisco proprio niente. «Ma qua’ corteggiatore misterioso! È chillu
scem ‘e Mimmo ca ‘a perz ‘a capa pe Patrizia. Anzi, ‘a perz ‘o core, come dice iss». «E perché non
glielo dice?» «Pecché se mette scuorno». Lo scuorno, il mio contributo alla vergogna di sé, mi ha
accompagnata per l’intera rampa di scale, insieme al ricordo di tutte le volte che ho tradotto l’amore,
mio e degli altri, come una banalissima somma algebrica di uguaglianze apparenti. Invece dovremmo
lasciarli in pace, quelli che si amano. Perché l’appartenenza è un fatto concreto, e quelli che tifavano
per gli indiani, quando s’incontrano, si riconoscono al primo sguardo. Così loro s’innamorano davvero,
e agli altri non resta che fare la parte dei cowboy. Che inseguono, inseguono soltanto. E in uno dei posti
dove lavoro io, a fare colazione col portiere non ci posso andare più.

 

1° posto: Luisa Patta con Lezioni di vento

 «Teo, nun ristari davanti a’porta. Trasi, ca sta arrivannu u malutiempu.[1]» Turi non ha uno zerbino all’ingresso, ma un sorriso che sa di benvenuto e di caffè appena fatto.

Teo si toglie le scarpe, appoggiandosi alla parete. La piccola barca di Turi sta aumentando il rollio e l’acqua inizia ad incresparsi tra gli ormeggi.

«Perché sei diventato mio amico?» Irrompe nel silenzio la domanda di Teo.

«Sono io che lo chiedo a te.» Ribatte Turi, senza alzare lo sguardo dalle sue mani, occupate a rammendare una vecchia rete da pesca.

«Sono diventato tuo amico perché la tua barca è l’unica casa accogliente di questo dannato paese.»

«Sai Teo, quando avevo la tua età, questo posto era molto peggio di adesso. Non potevi fuggire, da nessuna parte. Avevi gli occhi degli altri cuciti addosso, ovunque andassi. Vedi questo ago? Ti entravano dentro quegli occhi, come fa l’ago in questa rete, e si insinuavano sotto la pelle con il loro schifo, il loro disprezzo verso di te. In nessun posto ero salvo. Tu sai di cosa parlo, vero?» Turi alza il viso di botto, come avesse una molla sul collo.

Teo lo fissa, con le palpebre sbarrate. Conosce bene quegli occhi, sono anni che se li porta addosso, forasacchi infestanti che una volta entrati nella trama del tessuto non c’è verso di liberarsene. Non senza uno strappo.

«Ho sentito cosa dicono di te, Teo. Sono salito in piazza ieri per delle commissioni.»

«Odio tutti, Turi! Voglio scappare da questo posto schifoso!»

«Fallo Teo, se è quello che vuoi. Tu meriti un mondo in cui riconoscerti, che non ti cucia addosso il suo odio e quello che non sei. L’omosessualità è una parte di te, non rinnegarla mai. Ama chi vuoi ragazzo, ma soprattutto, rispetta tutti. Anche quelli che non ti rispettano. Io non sono venuto qui per nascondermi, l’ho fatto solo per proteggermi, ma sono rimasto incastrato. Avrei voluto che la mia casa accogliente fosse al centro del paese, ma anche quando le cose potevano cambiare ho portato troppo rancore e non ho saputo perdonare.»

«Turi, sei sempre troppo severo con te stesso. Io ti ammiro invece e questo posto per me è stato un angolo di salvezza in questi anni.»

«Sbagli Teo. Questa barcarola rattoppata è diventata la mia prigione. Non ci finire anche tu. Per te, amico mio, voglio una vita in mare aperto.»

«Vinni ‘ca pi salutariti, Turi. Haiu pinsatu c’haia a partiri, nun pozzu arristari ‘ca.[2]»

«Lo sapevo ragazzo, sei sempre stato in gamba. Questo posto ancora non ti merita. Ma lo farà, dagli un po’ di tempo.» Turi lascia cadere a terra la rete. Ora le sue mani, segnate dai tanti anni in mare, sembrano corde da pesca intrecciate anche loro, impegnate a tirar fuori parole dalla sua bocca.

«Lascia stare i giudizi degli altri. Non recriminare. Porta questo posto nel cuore, ovunque andrai, perché odiarlo non ti servirà a nulla. Un giorno tornerai tra i suoi colori e te ne sentirai parte. Forse ne sarai la sfumatura più bella. So che succederà.»

«Tu non hai paura a restare qui, da solo?»

«Non sono solo. Ho il mio tempo, il mio pensiero libero, il mare che entra ed esce da me, giorno e notte. Ma non è più il momento di costruire. La mia barca sta tornando al porto per l’ultimo ormeggio.»

Il silenzio tra loro si fa denso, come la nebbia che sale la sera dal mare, quando l’aria calda passa ad accarezzarlo.

«Sta cambiando il vento, vero Turi? Stasira nun chiovi, tu dicu iu.[3]»

Turi sorride, i suoi occhi sono lucidi. «Sei pronto, Teo. Hai imparato a riconoscerlo.»

Teo risale a due a due gli scalini in pietra del porticciolo, non gli era mai sembrato così piccolo prima d’ora. Minuscolo, un cono di imbuto che si restringe dietro di lui, fino a sputarlo fuori. Fuori lo aspetta un biglietto aereo per Parigi, quella borsa di studio fatta per caso stava tracciando la traiettoria più lunga della sua vita e lo avrebbe scaraventato al dì là del mare, dove non arriva ad indicare neanche la sua bussola.

Tiziana sta chiudendo il negozio, quando Teo le piomba alle spalle. Non si è fatto vivo per tutto il giorno, la partenza incalza e lei si sente per la prima volta in difetto. Pensa di dovergli qualcosa, un alloggio sicuro, una scorta di cibo da portare via, un sostegno economico, delle valide raccomandazioni, ma non fa nulla di tutto questo. Non si è mai comportata da mamma apprensiva, da mamma chioccia e per coerenza non avrebbe iniziato a farlo ora. Teo è cresciuto da solo, lontano dalla sua boutique al centro del paese, lontano dalle sue vetrine perfette e dallo stile sofisticato. Sua madre è la regina di quella piazza, il fulcro del chiacchiericcio delle signore che contano. Riesce ad essere ingombrante pur non facendo nulla, pur stando zitta, con tutto il suo strascico invisibile di perbenismo e quieto vivere. Per Teo il negozio è un buco nero, non ci mette piede da quando è bambino, da quando le signore ingioiellate strizzavano le sue gote piene fino a fargli male. L’avrebbe salutata lì, sulla porta.

Si avvicina da dietro, in silenzio. Lei avverte la sua presenza, scrolla le spalle facendo scivolare inavvertitamente una spallina del vestito. È ancora bellissima, una donna sulla cinquantina che avrebbe potuto conquistare il mondo, se solo avesse voluto. Lui non la odia, nonostante le forti incomprensioni, nonostante le profonde distanze. Odia tutti in paese, ma lei no. È sua madre, non avrebbe mai potuto. Ma fugge da lei, il più lontano possibile. Fugge dalla sua perfezione inscalfibile, dal suo punto certo nel mondo, dalla sua paura di graffiare la superficie e andare a fondo. Lì, appena sotto la superficie, c’è Teo. E Tiziana non era mai riuscita a vederlo.

Quando era piccolo gli abbracci erano facili. Teo se li ricorda. Abbracci semplici, perfettamente speculari, leggeri, frontali. Poi era cresciuto ed abbracciarsi era diventato sempre più difficile. Ma non per l’invadenza del corpo, anche se così si è portati a pensare. Piuttosto per l’invadenza dei pensieri, dei vissuti ingombranti, delle diversità.

La abbraccia alle spalle, all’improvviso, intrappolandola con forza, lasciandola orfana di braccia. Gli abbracci dei figli cresciuti sono abbracci da dietro, sono abbracci che hanno girato in senso orario fino a trovare una zona d’ombra dove tutto è concesso, dove non ci sono ruoli da rispettare ma ci si può incontrare anche se in disaccordo. Un po’ come abbracciarsi immersi nel mare, galleggiando, senza il peso della gravità. Gli abbracci da dietro sono abbracci sospesi, senza risposta.

«Fa bon viaggiu, Teo. T’aspetta Parigi.[4]» gli dice sottovoce, sfiorando le labbra sulla sua fronte, nel goffo tentativo di voltarsi per guardarlo negli occhi.

Teo fissa l’oblò, la sagoma della sua isola è ormai impossibile da distinguere. Rimane immobile a sentire quella realtà andarsene dal suo corpo, come forasacchi che finalmente si staccano di dosso.

[1] Teo, non restare sulla porta. Entra, sta arrivando il temporale.

[2] Sono venuto per salutarti, Turi. Ho deciso di partire, non posso rimanere più qui.

[3] Stasera non pioverà, te lo dico io.

[4] Fai buon viaggio, Teo. Parigi ti aspetta.